Dell’
Aviso
curiosissimo
del
fortunato
camino,
di
Don
Eliseo,
da
Sarbanga,
Paleologo
Armeno
fatto
verso
la
terra
di
vista,
incognita,
o
del
fuoco,
con
il
ritrovamento
degli
Antipodi,
con
la
discrittione
di
quei
paesi,
leggi,
culto,
vitto,
vestito,
figura,
longhezza
di
giorni
et
altre
cose
curiosissime;
merc
é
d’una
Tavola
di
bronzo
fatta
dal
grande
Alessandro,
che
prima
a
tanta
impresa
s’accinse;
con
loro
secreti
chimici
e
medicinali,
et
altre
maraviglie.
Imprimatur.
Fr.
Aloysius
Bariola
consultor
San.
Officii
pro
Reverendissimo
inquisitore:
Guglielmus
Vidonus
theol.
Sancti
Nazarii
pro
Ill.
mo
Cardinali
Archiepiscopo.
Vidit
Saccus.
etc.
Quei
famosi
guerrieri,
e
prudenti
Marinari
antichi,
emuli
del
chiaro
sole,
tra
i
quali
anzi
i
primi
de
quali
furono,
il
Colombo,
Fernando
Cortese,
il
Pizzaro,
il
Magagliones,
et
altri
sempre
cercarono
trovar
nuove
contrade
del
Mondo;
laonde
nacque
a’
posteri
poi
si
piena
cognizione
di
quello,
come
del
Perù,
del
Messico,
della
nuova
Francia,
e
Spagna,
et
altri
infiniti
paesi.
Ma’
tutti
questi
venuti
all’gli
ultimi
lidi
del
vasto
oceano,
quasi
altri
Alcidi
fondarono
colonne
di
pensieri,
et
in
quelle
con
la
mente
scrissero,
Non
più
ultra;
lasciando
a’
quelle
parti
nome
di
Terra
di
vista
del
fuoco
et
incognita,
che
per
innacessibile
la
tenevano.
Tal
intentata
strada
sì
maravigliosa
cagiono’
a’
Don
Eliseo
da’
Sarbanga,
Paleologo
Armeno,
glorioso
desio
di
tentare
quelle
strade
che
a
nostri
Padri
tolse
o
la
nebbia
del
non
curarsi
o’
la
luce,
di
essersi
affaticati
molto
e
di
volere
altresì
lasciar
a’
i
Posteri
occasione
di
acquistarsi
faticosa
gloria.
L’anno
dunque
del
Signor
1606,
inbarcatosi
con
sufficiente
provisione
in
Ragusi,
partissi
indi
il
dì
ch’in
memoria
de
fedeli
defonti
si
celebra,
e
passato
hor
con
prospero,
hor
con
minaccievol
vento
gli
ampi
golfi
de
Mari,
giunse
il
di
21
di
Marzo,
giorno
del
glorioso
Patriarca
S.
Benedetto,
a
fronte
la
terra
di
vista
appo
due
scogli
detti
da
suoi
trovatori
antichi
los
Romeros;
ma’
non
potendo
quivi
per
il
reflusso
del
Mare
dimorare
lunghe
ore,
partisi
verso
l’
Isola
de
Tristan
de
Acugnas
chiamata,
ne
anco
vuole
il
vento
che
ivi
potessero
prender
porto,
dove
trascorse
verso
il
Mare
chiamato
Machian,
a
sinistra
per
cento
miglia,
in
quattro
hore.
Quivi,
come
vuol
Iddio
benedetto,
trovata
un
(sic)
grandissima
fiumara,
che
a
sembianza
di
porto
si
chiudeva,
dove,
entrarono
a
vele
piene,
e
trascorse
per
trenta
miglia
a
dentro
per
quella,
gli
parse
essere
più
magistero
d’arte
che
opera
di
natura
cotesto,
cosi
buttati
li
capi
a
terra;
vuole
Don
Eliseo
vedere
la
novità
de
paesi,
chiamati
incogniti;
e
toltosi
compagnia
di
20
huomini
a
cavallo,
de
Camelli
con
provione
(sic)
per
due
mesi,
archibugi,
et
altre
armi,
si
voltarono
verso
man
dritta
dove
si
vedeva
maggior
pianura.
Hor
qui,
curioso
lettore,
apre
gli
occhi,
e
ben
che
la
maraviglia
nasca
da
ignoranza.
Hora
s’hai
punto
di
senno
maravigliati
il
vedere
che
infiniti
furono
i
travagli,
che
detto
Armeno
e
suoi
compagni
passorono
hor
di
fiere,
hor
di
monti,
hor
di
paludi,
laghi,
hor
de
mostri,
hor
perdendo
il
camino,
hor
di
precipitii,
e
sempre
di
mancamento
d’alberghi,
in
modo
con
gran
stento.
Era
dunque
il
trentesimo
dì
che
caminava
Don
Eliseo,
privo
già
di
due
compagni,
uno
dei
quali
fu
da
un
crudelissimo
Dragone
divorato
con
il
Camello,
l’altro
per
l’altezza
d’un
monte
precipitato
dal
vento
Circio,
e
di
ciò
mal
contento,
ma’
più
accorto
fuggiva
i
luoghi
alti
e
si
andava
ristretto
quanto
si
poteva.
Hora
avenne
che
il
terzo
dì
dopo
il
trentesimo,
giunse
in
una
larghissima
pianura
intorno
la
quale
si
vedeano
vestigia
d’alcuni
alberghi,
quivi
si
ripossarono
alquanto;
poi
con
la
speranza
pur
di
trovare
colà
qualche
habitazioni,
finalmente
trovarono
molte
ruine
di
fabbriche
maravigliose.
Quando
viene
veduto
da
un
certo
Diego,
et
ad
uno
detto
Caporalino
suoi
compagni,
una
tavola
di
bronzo,
d’altezza
di
trenta
piedi,
e
di
larghezza
pari,
lavorata
al
d’intorno
con
cornice,
figure,
et
mascheroni,
cui
faceva
arco
a
guisa
di
frontale
trionfale
con
due
colonne,
un
trofeo
marmoreo.
Don
Eliseo
che
poco
discosto
si
trovava,
rifrescandosi
a
una
fontana,
che
da
viva
pietra
sorgea,
inteso
questa
cosa
subito
corse
colà
e
scoperte
con
gran
diligenza
le
lettere
con
i
stili,
per
il
tempo
e
per
le
pioggie
quasi
disfatte,
e
con
infinita
allegrezza
lesse
quelle
lettere
Greche,
che
in
latino
così
direbbono:
-
Glorioe
Mag.
Alex.
Mac.
addictum
Mausul.
qui
primus
ad
Antipod.
descendit
via
invia
hoec,
vi
et
arte
comperta
est
faciliter.
Revertere,
si
non
es
Alex.
alter
quicumque
es.
quem
aut
fortuna,
aut
prudentia
huc
te
vectavit,
facilis
descensui,
haud
et
ascendere
tutum,
absque
vulcano,
et
cerere
haud
desunt
latices...
Dexstera
te
monet
crypta.
Questo
diceva
la
scrittura,
al
cui
disotto
stavano
altre
lettere
ma’
lograte
dal
tempo
non
fù
possibile
poterle
intendere
in
qui
(sic)
cambio
sono
i
punti...
Crebe
a
Don
Eliseo
l’ardire
ove
mancava
la
speranza,
et
intesa
la
forza
della
scrittura
se
soma
de
rami
di
Hedera,
et
d’alberi
o
allori
per
suoi
bisogni,
et
a
forza
di
lumi
fatta
chiara
la
Grotta,
che
a
man
dritta
havea
trovata,
per
mezzo
della
scrittura,
senza
pensar
altro,
si
mise
al
dubioso
camino.
Haveva
già
il
settimo
giorno
caminato
per
quella
gran
Grotta
che
assimigliarla
era
l’istessa,
o
simile
a
quella
che
a
punta
di
scarpello
fatta
da
passaggio
dalla
fumosa
Napoli
alla
vaga
Città
di
Pozzuolo,
ma’
di
lunghezza
non
haveva
comparatione
alcuna,
poichè
per
sette
giorni
non
si
vedeva
anco
fine
di
quella.
Haveva
Don
Eliseo
gran
copia
di
lumi;
del
cibo
loro
avanzava
per
puochi
giorni,
del
bere
sempre
si
trovava
buone
fontane
conforme
al
scritto,
Haud
desunt
latices,
talche
seguendo
il
camino
parea
loro
andare
all’ingiù
quasi
a
capo
chino,
ma
non
passò
molto
che
mancato
loro
il
cibo,
furono
costretti
a
dar
morte
ad
un
Camello,
prestamente
arrosto
mangiato
parte,
et
parte
serbato;
trascorsero
oltre
senza
potere
giudicare
differenza
dal
dՎ
alla
note.
Era
quasi
loro
mancata
la
speranza
di
vivere,
credevansi
precipitar
nel
inferno
quando
venne
loro
visto
breve
forame
onde
si
scorgeva
lume
chiaro
sì
ma
come
vago,
e
luce
d’oro,
che
gli
ravivò
la
speranza
quasi
perduta
il
nuovo
splendore;
e
fatto
per
quello
sicuro
Don
Eliseo,
avviatosi
innanzi
con
frettoloso
passo,
fù
il
primo
che
sul
varco
della
Grotta
trascorse,
et
affiaciatosi
come
da
una
fenestra,
vide
sotto
di
sè,
le
spatiose
campagne
tutte
rilucenti
di
color
d’oro;
et
perchè
gli
era
d’uopo
di
nuovo
scendere
all’ingiù,
si
maravigliarono
perchè
ove
prima
havevano
le
piante,
sembravali
hare
il
capo,
ne
si
argomentavano,
che
facendo
tragitto
d’angolo,
così
era
necessario.
Hor
così
venuti
a
fin
di
precipitosa
calata,
trovarono
la
terra
essere
di
color
azurro
del
cielo,
e
quasi
corpo
diafano,
per
due
palmi
trasparente
in
giù,
le
sue
herbe
sembravano
il
color
dell’oro,
non
dico
per
similitudine
ma’per
essenza,
e
così
erano
le
fronde
delli
alberi,
e
le
spiche
del
frumento
di
quei
paesi,
che
le
chiamò
spiche
per
la
sembianza
che
tengono
con
le
nostre
spiche,
ma
di
grandezza
ogn’acino
vaco
o
granello
avanza
una
nizola,
et
ogni
spicha
ha’mille
di
quelle,
e
pare
che
la
natura
l’habbia
miniate
d’oro,
che
apunto
come
miniate
d’oro
rilucono,
sono
i
frutti
lucidi
dall’
uncanto
all’altro,
benchè
di
spetie
differenti
delli
nostri,
tra
li
quali
ve
ne
sono
alcuni
che
tengono
in
sè
sculpita
l’humana
figura
che
pare
la
natura
havesse
voluto
in
quelle
parti
mostrarsi
madre
curiosa
dell’huomo,
l’herbe
havevano
in
sè
scritte
alcune
di
quelle
note
che
a
gli
hebrei
segni
rassomigliavano,
che
non
si
puote
conoscere
che
si
fosse
per
all’hora.
I
fiumi
non
acqua
ma
argenti
vivi
ne
menano,
se
forse
l’acqua
per
la
perfettione
della
terra
e
per
la
vitima
(sic)
presenza
del
sole
non
sembra
tale
in
faccia
qual
non
è
in
cuore,
regionando
metaforico.
Altre
acque
puoi
sono,
che
credo
nasca
dall’indorate
arrene,
come
il
mare
Negro
e
Rosso
dalle
negre
e
rosse
arrene
si
vede
e
si
chiama,
o
maraviglia
della
natura!
I
pesci
a
squadre
dorate
argenti
e
quasi
di
malte
colorite,
varcano
gli
ampi
mari.
Et
avvertano
i
lettori
che
quՈ
non
si
favoleggia,
ma
il
tutto
nasce
da
perfettion
d’aere
che
il
tutto
vorebbe
trasmutare
in
oro.
E
se
nelli
nostri
paesi,
e
più
in
Taranto,
d’orate
tale
si
chiamano
per
essere
dipinte
d’oro,
che
maraviglia
sia
dunque
se
in
quei
luoghi,
di
più
vivo
coloro
d’oro
i
pesci
si
veggono?
Gli
altri
animali,
che
per
le
selve
albergano,
non
sono
di
peli
vestiti
ma’
nudi
di
peli,
mostrano
di
stellata
pella
il
petto
e
l’tergo
vaghi
e
riguardevoli.
La
terra
poi
qui
non
si
coltiva,
ma’
da
per
se
cadendo
le
prime
semenze
apportano
le
seconde,
che
da
noi
l’erbe
nascono
che
selvaggeo,
o
silvestri
si
chiamano,
non
fà
bisogno
arrare
la
terra,
perchè
da
contimui
Terremoti,
benchè
non
perigliosi,
la
terra
viene
per
tutto
sussurarsi,
e
sembra
ch’l
vento
gli
giova
per
arratare.
Quivi
per
un
anno
continuo,
che
detto
Eliseo
vi
dimorù,
non
vide
pioggia
giamai,
ma’
il
cielo
è
si
copioso
di
ruggiada,
che
al
dimane
si
potrebbe
corre
con
i
vasi
in
abbondanza;
è
quello
che
più
importa
altra
acqua
non
si
beve
che
detta
ruggiada,
il
cibo
e
il
detto
formento,
ma’
cotto
solo,
senza
altra
mutatione
sotto
le
braggie,
quali
non
hanno
altrimenti
il
color
di
fuoco
rosso
ma’
bianco,
come
il
cielo
all’apparire
dell’aurora;
onde
par
che
sia
piutosto
fuoco
elementare,
che
artificiale;
i
pesci
sono
da
essi
cotti
al
sole,
da
esso
dico
che
in
quei
luoghi
albergano,
de
quali
si
dirà
ultimamente.
E
carne
non
mai
vidde
mangiarne,
hanno
sì
bene
uso
mangiar
un
herba
che
li
conserva
senza
fame
e
sete
per
giorni
venti,
e
fu
per
Don
Eliseo
provata,
e
trovata
vera.
Questa
la
chiamano
Bec,
e
crede
detto
Armeno
che
ne
sia
per
il
nostro
mondo,
benchè
non
conosciuta,
di
qui
(sic)
non
si
ragiona
per
altra
occasione
serbandola.
Il
vestito
o’
è
di
pelle
di
pesci,
che
sono
come
cuoi
Atlanti,
et
alle
volte
vanno
nudi,
conforme
i
tempi.
Non
portano
armi,
fuor
che
alcune
spine
di
quei
pesci,
ma’
che
ad
uso
no
le
portano
non
si
seppe,
e
si
ornano
delle
squame
loro
facendone
come
un
trofeo,
e
tutta
la
loro
vaghezza
è
in
quello.
Della
loro
adoratione
o
culto
non
si
puote
altro
investigare,
se
non
che
a
tempi
determinati
vanno
a
piedi
d’un
altissimo
monte,
e
quivi
uniti
insieme
gridano
con
voce
tant’alta,
che
assordirebbero
il
mondo;
quello
che
dicono
non
s’intende,
benchè
s’udivano
queste
parole
o
note:
Barlaae,
Sec,
Trifae,
et
altre;
poi
tornano
a
casa,
et
mangiata
di
quell’
herba
già
detta
di
sopra
stanno
senza
mangiare
venti
dì
continui.
Le
loro
case
sono
d’ossa
di
pescifatte,
et
coperte
Cinti
(?)
di
certa
missura,
che
non
si
pote
conoscere.
Hanno
un
capo,
che
si
conobbe
che
tutti
gli
facevano
riverenza,
andandogli
incontro,
con
un
pie
solo,
et
l’altro
non
toccandolo
in
terra
e
salutandolo
col
capo
alla
dritta
inchinato;
il
cibo
di
che
passano
questo
loro
signore
è
molto
dagli
altri
differente,
che
quivi
lo
porrù
per
essere
miracoloso
secretto
loro,
et
a
questo
di
non
poca
consideratione
pigliano
una
quantita
del
loro
oro,
e
non
manco
di
libre
sei
che
si
conobbe
al
peso
bene
s’
l’occhio
non
ingannù,
e
postolo
in
infusione
d’un
certo
licore
a
sembianza
del
nostro
vino,
di
qui
(sic)
si
dirà
appresso,
e
lasciato
ivi
per
spatio
di
12
hore,
vi
aggiungono
una
semenza,
una
radice,
et
un’herba,
quali
furono
da
detto
Armeno
vedute
e
conosciute
appo
noi
per
famigliare
è
d’
alauna
consideratione,
ma’non
per
questo
effetto,
e
postole
poi
in
un
vaso
come
a
lambico
fatto
di
legno
ma’
incorrutibile
come
osso
o
marmo
gli
danno
lento
calore,
e
di
quello
ricevendo
l’anima
chimica
l’usano
per
vitto
del
loro
signore,
che
è
maravigliosa
e
per
allungare
la
vita
e
rinovar
la
vecchiaia,
e
cadente
età;
il
che
anche
usano
coloro,
che
sono
giunto
al
fine
degli
anni
giovanili,
che
con
stupore
si
rinovano,
altre
Fenice;
il
licor
di
cui
invece
di
vino
si
servono
e
suco
cavato
d’erbe,
che
hanno
i
granelli
come
il
nostro
solatro
maggiore,
se
pur
non
è
l’istesso
di
cui
pongono
la
radice
in
detta
infusione,
la
semenza
è
chiusa
in
una
corteccia
come
di
noce
vomica,
ma’
cinta
di
spine
curte
e
tondette
alquanto,
a
somiglianza
dello
stramonio
se
pur
non
e
desso;
e
l’herba
ha
le
fronde
come
di
ferro
di
lancia,
che
noi
la
chiamiamo
chinoglossa
in
greco
commune,
et
in
volgare
lingua
di
cane
s’non
si
erra
in
quest’herba
sola;
e
questo,
credo
sia
quell’
anima
dell’oro
che
multiplica
una
mille
d’ogni
metallo,
benchè
vile,
questa
si
crede
quella
chimica
ruggiada
di
cui
disse:
De
rore
coeli
et
de
pinguedine
terre
fit
lapis
noster.
E
trascorrendo
alli
loro
ordini
riti
e
leggi
si
osservù
puoca
cosa,
ma
per
quanto
si
vidde,
haveano
regole
di
natura,
e
si
congiungono,
con
le
donne
per
il
tempo
che
non
sono
gravide,
usare
poi
con
loro
sorelle
sarebbe
pena
di
morte,
in
questo
modo
gli
danno
tando
da
bere
a
viva
forza,
che
affogati,
o
crepati
si
muoino,
e
questo
usano
in
dar
morte;
e
questo
sia
brevemente
detto.
Di
quanto
diremo
adesso
della
lunghezza
de
lor
giorni;
il
loro
giorno
non
è
più
di
quattro
hore
delle
nostre
l’estate,
e
dodici
l’inverno,
e
sei
ogni
equinottio;
le
raggioni
sono
chiare,
ma
per
lasciar
occasione
di
filosofare
si
tacciano.
Le
stagioni
non
hanno
mutatione,
che
sempre
fiorisce
la
terra
ne
di
freddo,
si
teme,
ne
di
neve,
et
in
somma
si
puկ
chiamare,
una
continua
primavera,
perchè
il
calor
del
sole
qui
è
in
perfettione,
poichè
sopra
il
nostro
zenit,
il
sole
fà
contra
la
sua
natura
di
mandare
i
raggi
in
giù,
poichè:
Omne
leve
tendit
sursum,
e
così
ogni
picciol
impedimento
o
di
nube
o
di
vento
o
di
pioggia
l’impedisce
del
suo
corso,
ma’stando
nel
nadir
manda
i
raggi
all’insù,
e
così
la
detta
ragione
naturalmente
procede
alli
suoi
favori;
ma
di
questa
nella
principale
sua
historia
si
ragionerà
più
ampiamente.
Resta
a
dire
della
loro
figura,
e
del
modo
con
che
riceverono
il
detto
Don
Eliseo,
e
compagni.
Per
cominciar
dunque
dal
primo,
dico
che
erano
d’altezza
di
palmi
trè
il
più
grande,
il
nascere
di
uno
di
quei
di
curta
statura
di
due
o
di
due
e
mezo;
gli
capelli
a
guisa
di
lana
ma
in
color
d’oro,
e
i
vecchi
di
fino
argento
sembrano,
e
tale
le
ciglia
e
gli
altre
parti;
il
naso
aguzzo
come
un
pugnale,
che
tal’hora
feriscono
con
quello;
gli
occhi
sono
rossi
cuome
fuoco
vivo;
il
loro
colore
è
come
il
nostro
formento
ma
più
chiaro,
l’unghie
son
tonde,
et
elevate
come
le
pietre
stellites
segnate,
e
questo
per
la
simpatia
che
vengono
conesse
le
stelle
per
havere
il
moto
sursum
come
è
detto
del
sole;
i
piedi
sono
tondi
senza
fessura
apparente
o
divisione
in
dita,
ma’
si
bene
si
vede
insegne
di
quelle,
ma’
non
è
tanta
ritondezza
che
paia
strano;
del
resto
osservano
alcune
cerimonie
nell’andare,
che
paiano
avere
qualche
elevato
giuditio,
si
regolano
per
ordini
tra
essi
segnati,
de
quali
non
si
fa
per
adesso
mentione
per
brevità.
Resta
a
dir
il
modo
con
che
fկ
ricevuto,
detto
Don
Eliseo,
ristretto
con
i
suoi
compagni,
se
ne
gira
mirando
le
meraviglie,
e
passendosi
di
frutti
della
Terra,
quando
visto
una
quantità
di
Capanne
fatte
d’osso
di
pesci,
e
mistura,
come
dicemmo,
si
posero
in
armi
ma’
non
fù
d’huopo
combattere,
che
veduti
degli
habitatori
di
quelle
parti,
furono
con
lieto
viso
incontrati,
e
cenni
mostrandoli
che
gli
conoscevano,
e
così
furono
portati
in
frontespizio
d’un
monte,
dove
vi
erano
alcune
statue
d’oro
con
l’inscrittione
di
Alexandero
Macedonico,
et
altri
nomi,
alli
quali
essi
Antipodi
facevano
riverenza,
e
di
qui
si
comprende
che
gli
Antipodi
per
tradizione,
havevano
conoscenza
di
quelle
figure
d’huomini,
come
altre
volte
venuti
a
loro
paesi,
e
li
riceverono
con
allegrezza;
e
con
questa
occasione
dimorò
un
anno
detto
Eliseo,
in
quelle
parti,
per
spia
(sic)
gl’intimi
sensi
di
quelli,
et
visto
il
tutto
da
potersi
soggiogare
e
ritornare
alle
nostre
parti,
ben,
che
privo
di
tredeci
compagni,
nel
ritorno
perduti
e
negli
Antipodi,
forse
per
l’estrema
sostanza,
che
quei
loro
cibi
porgono.